Capitolo 5 - Nelle Terre Dimenticate


Korgath viaggiò spinto dalla Terra a velocità incredibile. Sapeva che per raggiungere le Terre Dimenticate occorrevano tre giorni di viaggio a piedi, ma quando finalmente arrivò a destinazione gli sembrò che non fossero passati più di pochi secondi.

Immaginava che la Terra lo avrebbe sputato fuori come un proiettile, invece lo fece uscire delicatamente attraverso un piccolo crepaccio spalancato per l'occorrenza. Si ritrovò così in piedi in mezzo a una radura.

Si rese conto che molte leggende erano vere. Quel luogo appariva davvero malsano. C'era freddo, molto freddo. Il suolo era secco e le zolle di terra sembravano grossi biscotti sul punto di sbriciolarsi. Gli alberi erano tutti secchi e rattrappiti. Davanti a lui si apriva una vasta pianura ma non sembrava esserci niente di vivo. Era tutto spoglio. A tratti si vedevano le macerie di una casa diroccata di chiara fabbricazione elfica, in altri punti c'erano invece i resti di un fuoco spento in fretta, come nelle abitudini degli orchi. Ovunque regnava un silenzio innaturale. La nebbia che avvolgeva quel luogo sembrava ne avesse assorbito anche i suoni. Il cielo era coperto da un impenetrabile manto di nuvole grigie come la barba di un vecchio mago e la luce del sole difficilmente riusciva a farsi strada.

La striscia verde scuro del fiume Athol-ei tagliava in due la pianura: una lingua limacciosa di fango denso  sbucava dalla foresta alla destra di Korgath per perdersi nelle nebbie di una valle più in fondo, verso la sua sinistra, dove si innalzavano montagne di cui non si scorgeva la cima.

Lontano, ai confini dello sguardo, si ergeva la famosa collinetta e sulla sommità svettava, immensa, la Torre del Gigante. Di fattura elfica, era stata modificata da una mano non troppo gentile per assumere le sembianze di un edificio grottesco. Sulla sommità, una luce cangiante modificava il colore delle nuvole, formando figure terribili: visi umani ghignanti e malvagi, animali spaventosi, ma per lo più luci e forme senza senso. Chissà quali stregonerie stava studiando il vecchio Attichus sotto quel cielo tenebroso.

Dapprima Korgath non li vide, ma tutt'attorno alla base della collina c'erano non meno di una dozzina di accampamenti. Si avvicinò. Tende di tela e fuochi che ardevano sotto calderoni improvvisati davano accoglienza agli orchi, orribili come nelle storie. Non erano molto alti, ma la loro pelle era verde come la melma. Le zanne affilatissime che avevano al posto dei denti sporgevano dalla bocca formando un ghigno malefico. Indossavano armature lacere e danneggiate in più punti, ma erano armati con spade e asce nere come la pece dalle quali non si separavano mai.

Aguzzando la vista, si potevano scorgere alcuni di loro giocare a dadi o litigare contendendosi un pezzo di carne. Al solo pensiero di quale ne fosse l'origine, Korgath ebbe un brivido.

Cominciò a sentire un profondo disagio. Era in un luogo sconosciuto, armato solo di un pugnale da quattro soldi (quello d'oro non si sognava nemmeno di sfoderarlo) e sulla sua strada c'erano orchi famelici mangiatori di uomini. Fortunatamente, data la loro proverbiale vista poco sviluppata, non riuscivano ancora a vederlo.

Scacciò quelle emozioni e pensò a un modo per raggiungere la torre senza farsi scoprire. Avanzare dritto era rischioso. Molto più saggio allungare un po' il tragitto e cercare di raggiungere la collina da dietro o di lato, dove forse non c'erano accampamenti. Nel frattempo, magari gli orchi si sarebbero addormentati dopo il pasto, permettendogli di muoversi indisturbato.

Scelse di prendere un sentiero di terra battuta alla sua sinistra che scendeva giù lungo un piccolo dosso. In fondo, a una trentina di passi, un ponte di legno collegava le rive del fiume di fango.

Procedette cauto, la mano sul pugnale e gli occhi spalancati. Non poteva sapere cosa si nascondeva nelle ombre o sotto il suolo.

Sentì qualcosa strisciare dietro una pietra e rabbrividì. Una sagoma stretta e lunga uscì allo scoperto: un serpente rosso come il fuoco. Non ne aveva mai visto uno di quel colore.

L'animale sollevò la testa e lo osservò. Sibilò due o tre volte, esaminando con cura l'estraneo.

«Me ne sto andando» disse Korgath, come se il serpente potesse capire.

Incredibilmente, il rettile abbassò la testa e strisciò da un'altra parte, lasciando la via libera, come se avesse inteso le sue parole. Korgath pensò che forse la magia elfica di Keradas c’entrava qualcosa.

Dopo qualche decina di passi raggiunse il ponte. Era di legno marcio e annerito dal fuoco, ma dava l'impressione di reggere. Il fiume sottostante era una massa limacciosa che scorreva quasi alla velocità di un uomo in corsa. Era di un colore verde opaco come la pelle degli orchi. Certo, Korgath non avrebbe mai desiderato cadervi dentro.

Stava per mettere piede sul ponte, quando d'improvviso udì una voce. «Chi sei?»

Sussultò. La mano corse d'istinto al pugnale, i muscoli si tesero. Si guardò intorno, ma non riuscì a localizzare la direzione dalla quale la voce proveniva, né a vedere nessun altro oltre a lui.

Pensò di essersela immaginata, ma poi la sentì di nuovo. «Sei sordo? Ti ho chiesto chi sei.»

No, non se l'era immaginata. La voce proveniva dal ponte. Anzi, da sotto il ponte.

Korgath strinse il pugnale, pronto a estrarlo. «Chi ha parlato? Fatti vedere!»

Vide una sagoma strisciare da sotto le assi logore e rabbrividì. Sapeva bene, infatti, chi abitava i ponti di quella parte del mondo.

Quando l'essere mise fuori la testa, Korgath sentì il cuore perdere un colpo e la bocca farsi improvvisamente secca.

Non gli piaceva cosa stava per uscire da sotto il ponte. Non gli piaceva per niente.

Il prossimo capitolo verrà pubblicato domenica prossima!

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