Epilogo


Korgath fu trasportato dalla Terra in una pianura circondata da colline a mezza giornata di cammino da Sherimal, come aveva chiesto. Si sentiva soddisfatto. Stranamente felice. Per quanto quell'avventura gli fosse quasi costata la vita più di una volta, era sereno. Forse si sentiva così perché aveva fatto una buona azione, oppure era stato il volto completamente trasformato di Keradas a  trasmettergli questa emozione.

Ripensò agli ultimi avvenimenti. Quello che prima era un potente re prigioniero e disperato, adesso era un potente re e basta.

Quel ciglio di tristezza negli occhi verdi era sparito. Il volto, autoritario ma comprensivo insieme, adesso era felice.

Le nuvole nella vallata erano ormai sparite del tutto. Il cielo era azzurro e il sole brillava alto. La terra stava cominciando a riacquistare vita. Non c'erano più zolle granulose e fragili, bensì un unico, compatto, manto di terra fertile. Perfino il colore del grande fiume Athol-ei era cambiato. Stava mostrando sempre di più il  trasparente luccichio dell'acqua pulita. Forse i pesci sarebbero tornati presto.

I troll e gli orchi stavano scappando. Vedendo il paesaggio mutare sotto i loro occhi avevano capito, nonostante la loro proverbiale stupidità, che era meglio sparire. Correvano e si spingevano affannandosi per raggiungere l'orizzonte.

Capitolo 12 - Lo scontro finale


Le nuvole si diradarono a vista d'occhio, mostrando finalmente il cielo, una macchia di azzurro  che si spandeva nel mare grigio.

Korgath sentì Attichus imprecare in una lingua sconosciuta. Una luminosità bianchissima faceva diradare le nuvole. Era più o meno a forma di colomba, ma il suo aspetto cambiava di continuo. Sotto quello splendore, perfino gli alberi rinsecchiti cominciarono a rinverdire. Il ladro imprigionato nello smeraldo vide che si stava avvicinando. E rapidamente, anche.

Quando fu quasi sopra di loro, Korgath poté vedere che la luce era emanata da un uomo al suo interno. Anzi, non era proprio un uomo.

Prima che Attichus si accorgesse delle orecchie a punta, dei capelli lunghi e dorati e del viso regolare e senza imperfezioni, l'elfo aveva già scagliato una saetta sfolgorante dalla mano.

Il mago riuscì ad abbassarsi in tempo, ma il fulmine atterrò a pochi metri dal gigante cieco che si mise a gridare indietreggiando per la paura.


Capitolo 11 - Il gigante e il mago


Il suolo sotto i piedi di Korgath si fece arido e secco e, fortunatamente, l'accampamento degli orchi più lontano. Korgath cominciò a riflettere su come sarebbe stato meglio muoversi per rubare l'Occhio del Gigante e decise di aspettare che il mostro si mettesse a dormire.

In realtà, Korgath non aveva mai visto un gigante e non aveva la benché minima idea di quanto potesse essere grande. Forse l'ascia e la spada rubate agli orchi non sarebbero state sufficienti.

Scacciò quei pensieri e si concentrò sul tenere gli occhi aperti. Un altro troll come quello del ponte e sarebbe stato perso.

Fortunatamente la strada era sgombra e dopo pochi minuti poté finalmente vedere da vicino la magnifica torre di Keradas. Originariamente era bianca, ma una patina nera aveva cominciato a intaccarla, coprendo il colore originale. Mostrava dei merli intagliati nella pietra e finestre strette e alte, probabilmente per proteggere gli arcieri in caso di attacco. Era immensa e ciò era strano in quanto, per quello che ne sapeva lui, agli elfi non piaceva allontanarsi dalla terra. L'altezza della torre diede a Korgath un'idea sulle dimensioni del gigante.

Capitolo 10 - L'accampamento degli orchi


Korgath riprese i sensi quando l'orco che lo portava sulle spalle inciampò su un'asperità del terreno. Lo sentì ruggire violentemente nella sua lingua orripilante, e rimettersi in marcia.

Sollevò la testa e notò che non si trovava più nella palude, bensì sulla pianura arida. Si stavano dirigendo verso la base della collina con la torre. Dall'accampamento, che adesso riusciva a scorgere, si innalzavano sbuffi di fumo.

Sentì un tuono rombare sordo. Non era un tuono vero, erano le magie folli che Attichus stava architettando sulla sommità della torre. Questa era adesso molto più vicina e terrificante di prima.

Avvertì subito dopo che le corde strette dalle mani per niente gentili degli orchi gli facevano male. Decise di non muoversi e di fingere di essere ancora svenuto. L'avvicinarsi all'accampamento gli dava un senso di terrore crescente. Sapeva, infatti, che gli orchi mangiano volentieri la carne umana. Non poteva muoversi, quindi tanto valeva lasciarsi trasportare da loro e risparmiare energie.

Dopo qualche minuto, entrarono nell'accampamento. Le tende di tela viste in lontananza avevano, da vicino, un aspetto ancor più deprimente. Gli orchi erano poco più di trenta in tutto, ma dietro la collina Korgath poté vedere i fumi di altri bivacchi. Vide orchi intenti ad affilare le armi, altri che si allenavano su fantocci di paglia e alcuni che giocavano a rincorrere delle galline mentre i compagni riscuotevano scommesse. Data la goffaggine tipica di quei mostri, le galline avevano quasi sempre il sopravvento, ma ogni tanto un orco riusciva a catturarne una e, tra il clamore del pubblico, la sollevava in aria e le spezzava il collo con un morso.

Capitolo 9 - Le paludi infestate dagli orchi


La pietra magica guidò Korgath lungo i labirinti di pietra. In prossimità delle biforcazioni perdeva luminosità se veniva puntata in direzione sbagliata e ne acquistava quando era diretta lungo il sentiero che conduceva all'uscita. Korgath ringraziò mentalmente il nano per quello splendido dono e fece nota di far vedere la gemma al ricettatore di Sherimal, facendosi pagare profumatamente.

A un tratto, la luce della pietra divenne quasi accecante. Voltato l'angolo, Korgath vide l'apertura della caverna e corse a perdifiato verso l'uscita. I suoi occhi si abituarono presto alla nuova luce e scorse le nuvole colorate sulla sommità della torre ancora lontana.

Dapprima abbagliato, Korgath si abituò presto alla nuova luce e corse a perdifiato verso l'uscita. Dimenticò rapidamente il puzzo stagnante di chiuso e resina bruciata che c'era nelle viscere della montagna e respirò a pieni polmoni l'aria del mondo esterno, che mai prima di quel momento aveva avuto un odore così meraviglioso.

Si accorse però di aver fatto una sciocchezza. Sarebbe dovuto uscire con circospezione. Qualche orco avrebbe potuto trovarsi nei paraggi. Considerando che un intero esercito di quei mostri lo aveva visto sparire nella Montagna Oscura, c'era da immaginare che avessero deciso di sorvegliare tutte le uscite di loro conoscenza.

Capitolo 8 - Il nano


Passò un tempo che Korgath non riuscì a misurare. Potevano essere minuti o ore. Era immerso nell'oscurità più nera. Il terrore lo avvolse.

Provò ad arrancare tenendo una mano su una parete, per non cedere alla disperazione, ma cominciò a credere che non sarebbe mai più uscito di lì e fantasticò su quanto tempo avrebbe resistito senza acqua né cibo.

D'un tratto, vide un barlume spuntare da una caverna trasversa, non lontana da lui. Korgath si riscosse dirigendosi verso quella luce, sempre più nitida e vicina.

Giunto quasi all’imbocco del passaggio, sentì dei passi lenti che si avvicinavano. Si schiacciò contro la parete e strinse il coltello, il cuore che martellava in gola e i muscoli tesi, pronti a scattare al minimo segno di pericolo.

I passi erano vicinissimi. Korgath strinse i denti e, con un grido, sbucò fuori dall'angolo. Si aspettava un mostro gigantesco o un orco. Invece, quando vide il portatore della luce, rimase per un attimo interdetto.

Era un nano, uno di quelli che di solito abitavano le montagne a est, alto la metà di lui e molto più vecchio. La barba grigia incorniciava un volto segnato dalle rughe, nel quale due piccoli occhi acuti lo scrutavano sorpresi quanto lui. In mano aveva un bastone di legno chiaro, con un piccolo alloggiamento scolpito sulla cima nel quale era incastrata una pietra grande quanto la mano di un bambino. Era quella pietra che emanava la luce.

«Chi diavolo sei?» chiese il nano rompendo il silenzio dopo un paio di battiti di cuore.

Capitolo 7 - La Montagna Oscura


Korgath sbatté le spalle sul bordo del fiume. Artigliò la sponda viscida e cercò di tirarsi su. La prima volta le dita scivolarono nel fango e Korgath ricadde indietro, ma la seconda riuscì ad aggrapparsi più saldamente. Usò tutta la forza che gli era rimasta e con un ultimo sforzo riuscì a uscire dall'abbraccio melmoso e puzzolente dell'Athol-ei.

Esausto, si distese a pancia sotto sulla riva piena di limo raggrumato. Era senza forze ma salvo, per il momento. Non aveva guadagnato il ponte, però almeno era sfuggito agli orchi. Respirò a grosse boccate per qualche minuto finché il cuore non rallentò i battiti. Poi tentò di rimettersi in piedi. Le membra gli facevano ancora male, ma il dolore stava passando.

Era in una grande caverna buia. L'unica luce proveniva dallo squarcio nella roccia attraverso il quale era entrato, ma di certo non bastava a illuminare tutto l'ambiente. Si rese conto che il fiume descriveva una larga ansa nel punto in cui lui si era incastrato e poi si perdeva dentro la caverna scomparendo nell'oscurità. A qualche passo dalla sponda, il suolo tornava di solida roccia.

Man mano che Korgath si abituava all'oscurità, apparvero alla sua vista delle erbacce che crescevano miracolosamente in un palmo scarso di terra vicino alla luce. Poi sentì che oltre al rumore cupo del fiume di fango c'era qualcos'altro, uno scrosciare diverso, più vivo: lo zampillio di acqua pulita, acqua vera.

Capitolo 6 - Il Troll


Dalla parte inferiore del ponte sgusciò fuori un esserino alto poco più di un nano, con la pelle grigia e squamosa, una lunga coda e artigli al posto delle dita.

Salì rapido sopra il ponte e si mise davanti a Korgath, sbarrandogli la strada. Un troll! Keradas gliene aveva parlato. Sì, non poteva essere altro.

«Qui le domande le faccio io» disse il troll con una voce rauca e gutturale. «Questo è il mio ponte e da qui passa solo chi voglio.»

Korgath represse un moto di panico. Aveva sentito dire che quella razza perfida era capace di emettere un grido fortissimo e, se quel troll lo avesse fatto, l'intero esercito di orchi sotto la collina sarebbe arrivato di corsa.

Cercò di mantenere la calma e di non farlo innervosire.

«Mi chiamo Korgath.»

«E vuoi passare dall'altra parte del fiume, vero?»

«Esatto.»

Capitolo 5 - Nelle Terre Dimenticate


Korgath viaggiò spinto dalla Terra a velocità incredibile. Sapeva che per raggiungere le Terre Dimenticate occorrevano tre giorni di viaggio a piedi, ma quando finalmente arrivò a destinazione gli sembrò che non fossero passati più di pochi secondi.

Immaginava che la Terra lo avrebbe sputato fuori come un proiettile, invece lo fece uscire delicatamente attraverso un piccolo crepaccio spalancato per l'occorrenza. Si ritrovò così in piedi in mezzo a una radura.

Si rese conto che molte leggende erano vere. Quel luogo appariva davvero malsano. C'era freddo, molto freddo. Il suolo era secco e le zolle di terra sembravano grossi biscotti sul punto di sbriciolarsi. Gli alberi erano tutti secchi e rattrappiti. Davanti a lui si apriva una vasta pianura ma non sembrava esserci niente di vivo. Era tutto spoglio. A tratti si vedevano le macerie di una casa diroccata di chiara fabbricazione elfica, in altri punti c'erano invece i resti di un fuoco spento in fretta, come nelle abitudini degli orchi. Ovunque regnava un silenzio innaturale. La nebbia che avvolgeva quel luogo sembrava ne avesse assorbito anche i suoni. Il cielo era coperto da un impenetrabile manto di nuvole grigie come la barba di un vecchio mago e la luce del sole difficilmente riusciva a farsi strada.

La striscia verde scuro del fiume Athol-ei tagliava in due la pianura: una lingua limacciosa di fango denso  sbucava dalla foresta alla destra di Korgath per perdersi nelle nebbie di una valle più in fondo, verso la sua sinistra, dove si innalzavano montagne di cui non si scorgeva la cima.

Capitolo 4 - L'abitante della caverna


Dietro le sbarre in acciaio stava un uomo alto, magro, con lunghi capelli biondi che ricadevano sulle spalle e due occhi verdi come il mare fissi sull’uomo e il bambino. Le orecchie a punta ai lati della testa fecero capire a Korgath che ciò che aveva dinanzi a sé non era un essere umano.

L’elfo era vestito di stracci vecchi, logorati dal tempo e dall’umidità. La salsedine aveva corroso il colore originario, ormai diventato un bianco sporco che bene si intonava con le pareti della cella. Non indossava scarpe e i suoi piedi erano martoriati dalle ferite provocate dalle pietre affilate che ricoprivano il pavimento. Doveva trovarsi in quella cella da molto tempo.

Korgath lo squadrò dalla testa ai piedi per parecchi secondi. Non aveva mai visto un elfo in gabbia e mai avrebbe creduto di vederlo. C'era un che di fiero nel suo aspetto, nel suo modo di camminare e di stare dritto in piedi.

«Finalmente siete arrivati» esordì l’elfo esprimendosi perfettamente nella lingua degli uomini. «Il sole è calato e io ho bisogno di riposare.»

Lo stupore era ancora dipinto sul viso di Korgath. «Era lui che mi dovevi far vedere?» chiese al bambino.

Capitolo 3 - L'inaccessibile promontorio


Stava per scoppiare un temporale. Non era ancora giunto il tramonto e soffiava un vento così freddo e intenso da sentirlo quasi nelle ossa.

Il bambino camminava con passo spedito, guardando ogni tanto se Korgath era ancora dietro di lui.

«Ora che sei riuscito a farmi uscire dalla locanda, ti dispiacerebbe dirmi dove stiamo andando, o è chiedere troppo?» chiese l'uomo. «E non correre!»

«Stiamo andando alla scogliera.»

«Alla scogliera?» esclamò Korgath. «Con questo tempo? Ma sei matto? Che ci andiamo a fare, lì?»

Il bambino sbuffò. «Uffa, quante domande! Seguimi e vedrai.»

Korgath capì che l'unica cosa da fare era obbedire a quel ragazzino testardo, così continuò a seguire i suoi passi in silenzio.

Camminarono per più di due ore. Oltrepassata una collinetta, raggiunsero finalmente la scogliera. Il sole stava ormai avviandosi verso il tramonto, tanto da essere quasi sparito. Il vento non accennava a diminuire e le onde si frantumavano sugli scogli con un suono che a Korgath evocò i ricordi di quando era bambino e suo nonno gli raccontava dei draghi. Ricordava che il vecchio imitava il ruggito dei mostri in un modo che a lui e a suo fratello faceva parecchio ridere. Ecco, il suono delle onde era simile, ma molto più cupo.

Capitolo 2 - Lo straniero nella locanda


Il vento gelido della notte soffiava fra le case e i campi con un sordo ululato. La maggior parte degli uomini del villaggio era riunita nella locanda “Il ramo del salice” insieme a viaggiatori di passaggio, cinque o sei persone per tavolo e altrettanti boccali di birra e vino, piatti pieni di carne e verdure e qualunque altro tipo di cibaria. Risate e schiamazzi erano intervallate da qualche urlo rabbioso dovuto all’eccesso di bevute, ma l’oste era attento a intervenire con il suo bastone per evitare che si trasformassero in rissa. Un camino caldo e accogliente riscaldava l'immensa locanda dal freddo esterno.

Ma non tutti erano allegri. In fondo alla taverna, seduto da solo, stava un uomo dall’aria accigliata, intento a sorseggiare lentamente della birra. I suoi occhi neri erano severi e corrucciati, la barba folta; i capelli lunghi e castani ricadevano su una pelliccia di lupo adattata a mantello. Portava dei bracciali di pelle d’agnello e alla cintura aveva ben in vista una daga lunga e affilata. Le mani ruvide come quelle di un contadino e i muscoli ben sviluppati lasciavano intendere che lo sconosciuto non era estraneo al lavoro e alla fatica.

Il suo nome era Korgath. Nonostante il chiasso, continuava a sorseggiare la sua birra come se fosse al centro di una bolla di silenzio, indifferente a ciò che lo circondava. Dopo aver finito, posò il bicchiere lentamente e solo allora lanciò un occhiata verso gli altri avventori, ormai tutti ubriachi.

Con aria indifferente, Korgath infilò la mano sotto il mantello, all'altezza delle costole, tastando un oggetto oblungo. Non poteva tirarlo fuori, altrimenti avrebbe attirato la curiosità di tutti i tagliagole della locanda. Era infatti un pugnale d’oro, con uno smeraldo e un rubino incastonati nell'impugnatura, infilato in una guaina di cuoio, con pietre preziose lungo tutta la sua lunghezza.

Non aveva dubbi, quel pugnale era molto antico e doveva valere una fortuna.

Capitolo 1 - Un'alleanza malvagia


La caverna era fredda e umida. Stalattiti appuntite pendevano dall'altissimo soffitto immerso nell'oscurità. L'unica fonte di luce era un piccolo spiraglio che si apriva nel punto più alto della caverna. Il pavimento era scabro e pieno di carcasse di animali.

Attichus guardò verso un punto preciso della caverna, poco al di là della fonte di luce. Era sicuro che ci fosse qualcosa, si poteva sentire benissimo un rauco, profondo respiro che risuonava in tutta la caverna come un ritorno d’onda.

E di sicuro apparteneva a qualcuno di molto, molto grosso.

Si decise a rivolgergli la parola.

«So che hai motivo di odiare quegli sporchi elfi almeno quanto me.»

Sentì un tintinnare di catene e una serie di grugniti incomprensibili.

«So che puoi capire la mia lingua, anche se non sei capace di parlarla. Conosco il motivo per cui gli elfi ti hanno incatenato qui. Quelli della tua razza non sono molto graditi presso quel popolo, vero?»

Ci fu una pausa, poi dal fondo della caverna provenne un grugnito di assenso.

«Vedi, gli elfi sono fatti così» continuò Attichus. «Amano solo se stessi e disprezzano ciò che è diverso da loro. Sono così potenti, così immortali da provare disgusto per gli esseri inferiori. E noi, amico mio, per loro siamo esseri inferiori.»